Under neon loneliness, motorcycle emptiness

Hanoi sono sciami impazziti di motorini. Hanoi è una tacita norma, mai scritta eppure mai ignorata, in cui tutto è possibile finché nessuno osa l’impossibile. Anche i motorini conoscono la regola: il tuo cavallo Honda può andare ovunque, scagliarti in senso inverso, schivare pedoni serafici e uscire di strada su martoriati marciapiedi purché non si esageri con il coraggio. L’eccesso ti porterebbe ad una punta di audacità, inesorabilmente rischiosa, come ad esempio superare il passo da Ronzinante d’ordinanza oppure soffermarti sulla visuale offerta dagli specchietti retrovisori, un lusso per pochissimi eletti sprezzanti del pericolo. Deviare da come si è sempre fatto e sempre si farà mette a repentaglio un equilibrio delicatissimo: la tacita norma, mai scritta e universalmente conosciuta è di non uscire dall’ordinarietà. Ma cercare di definire il significato di ordinario potrebbe portare ad una rivoluzione estetica per un occidentale. Sono ordinari i polli che razzolano sotto i tavolini dei bar, l’amore disarmante di uno studente verso un maestro, gli intestini destinati al consumo alimentare sciacquati con l’acqua a bordo strada, le famiglie con figli che viaggiano impilati come libri su una mensola seduti su un’unica sella di motorino, i passanti che si mettono in posa per la foto del turista, mandarini regalati a fine pasto dalla vecchietta che ti ha servito la zuppa, tavoli, sedie, comodini legati ad uno scooter e carcasse di maiali trasportate in moto come se fossero passeggeri aggrappati al guidatore. In Vietnam è ordinario ignorare i ratti che corrono come funamboli sui fili della luce, non scomporsi per il fracasso fuori controllo di una scolaresca, è ordinaria la purezza di un sorriso regalato ad uno sconosciuto solo perché è occidentale, fare barba e capelli alla fermata dell’autobus, con lo specchio per il cliente agganciato ad una ringhiera, portare pazienza verso chi non parla la tua lingua, svegliarsi al canto dei bulbul appollaiati fuori dalla tua finestra: ma non sarà mai ordinario andare più veloce degli altri. Questo paese ristabilisce sempre i criteri della bellezza e della normalità, ma sotto le luci al neon delle mille insegne della città il tuo motorino non può permettersi di distinguersi, non importa quanta solitudine incontri.

Black cab (no time for being patient)

La prima zanzara del mio viaggio l’ha ammazzata Lucas, un ragazzo spagnolo dallo zaino da Guinness dei primati trascinato facilmente a dividere il taxi con me. Nella mia prima ora in Asia è con lui che ho condiviso la confusione e l’apprensione per un tragitto aeroporto-città che sembrava un secondo viaggio tra i continenti.

Lucas e il suo zaino sono scesi presto, la sua ansia da backpacker occidentale non riusciva a reggere le troppe incognite del tragitto complicato scelto dal tassista: ad ogni svolta corrispondeva un crescendo drammatico di caos, di file interminabili, di clacson esasperati. Un ottovolante troppo disordinato da ripercorrere sul navigatore del suo iPhone, con quella diffidenza più teutonica che mediterranea che vuole il viaggiatore sempre all’erta per sventare ogni tentativo di truffa. Con il palmo della mano ancora sporco del sangue della zanzara ha scosso il tassista dal suo panico da ora di punta e in qualche modo è riuscito a fargli comprendere la sua richiesta repentina. Il taxi color pece ha accostato ai margini dello stradone davanti ad un chiosco brulicante di ragazzi con la testa china su mille ciotoline diverse, intenti a trangugiare chissà che. Più interessata dall’arcobaleno di sgabellini su cui erano appolaiati gli affamati che al frettoloso recupero del bagaglio di Lucas ho intascato la sua parte, in banconote fresche di stampa e ho salutato quel ragazzo già preoccupato dalla confusione delle strade di Hanoi. Mentre il taxi ripartiva ho sperato che Lucas si fosse sbagliato su quell’autista dall’inglese incerto e che le deviazioni incorse fossero funzionali al delirio dovuto al traffico delle 17.

Solo due settimane dopo ho messo in ordine le idee su quel viaggio e compreso che Lucas era stato talmente impaziente da scendere ancora alle porte della città. Le strade di Hanoi non seguono nessuna logica, anche da un piunto di vista non occidentale ma il tassista aveva ragione: all’ora di punta non è possibile inventarsi un altro tragitto. Chissà se Lucas dopo aver percorso quasi cinque chilometri a piedi lo avrà capito.

 

La turista

Ho regalato la cartina di Milano che mi avevi dato. L’ho regalata perché era lì da anni, con le mappe di Marsiglia, Marrakech, Trieste, Wroclav, Londra. Non mi serviva più ricordare quella vita da turista di passaggio nella tua città.

Ora ho un mazzo di chiavi tutto mio in un’altra città.

Del perdono

Ci perdoneremo le battute balbettate e le vacanze programmate male, perdoneremo le cene imbarazzanti e le gaffe da far arricciare il naso, il ritardo ad un appuntamento, gli auguri inciampati nel giorno sbagliato. Perdoneremo a noi stessi il vino slavato, le reazioni sopra le righe e persino le perfidie sulle nostre madri. Ci perdoneremo le assenze crudeli e le scelte più spietate, ma sarà sempre imperdonabile esserci dimenticati di noi.

Il ciclista

Hai sterzato con i freni della ruota davanti e per non sbalzare con tutto il peso del corpo contro il pilastro del portico, hai buttato subito un piede a terra. Probabilmente lì davanti al bar c’è ancora un po’ di gomma della tua suola spalmata sul porfido. Senza darmi il tempo nemmeno per balbettare qualcosa sulla tua irruzione, hai brandito contro il mio viso il mazzo di fiori che tenevi nella mano sinistra. Avevi evidentemente sentito il mio commento, nonostante pedalassi forte e in una direzione contraria alla mia.

– Guarda che bei fiori che ha quel ragazzo.

– Forse è sceso dai colli e li ha raccolti nei campi.

Eri lì che mi sventolavi sotto il naso questo mazzo di papaveri, campanelle, spighe e non capivo cosa volevi che dicessi.

– Se riconosci quelli rosa, questi sono tutti per te.

– Scusa?

– Se conosci il nome di questi fiori, te li regalo.

– Oh.

Non sapevo il nome. Ti ho chiesto se potevo almeno annusarli e tu dapprima hai sorriso di sottecchi, poi hai dato un’impercettibile scrollata con la spalla destra.  Hai sorriso di nuovo, guardandomi negli occhi e hai sollevato i fiori, perché potessi affondare in quella nuvola.

– Mi dispiace, non lo so. Però regalali a qualcun’altra, almeno.

– Non posso. Li terrò io ma questi erano per te.

E sei ripartito di scatto, forse ti avevo deluso a sufficienza. Stamattina, bevendo il caffè, ho immaginato che stessi facendo lo stesso, prima di andare in ufficio. Ero felice che ci fossero i miei fiori a farti compagnia, lì sul tavolo.

Ventotto anni

La linea si divincola dal broglio delle mie ciglia e con uno slancio maldestro si stende in avanti, attraversa timida le molecole di ossigeno tra il mio respiro e il tuo, scavalca questo silenzio di te e di me e ti disegna, dalla punta del naso si arrampica su fino alla fronte, ti accarezza distratta poi prende coraggio e insegue lo scompiglio complice dei tuoi capelli, scivola divertita giù per il collo, che sembra non finire più, finché le spalle la fermano un istante, così si intenerisce e  imprevedibilmente rallenta, indugia sulle tue scapole affilate e tiene traccia di te contando le vertebre, fino all’inciampo improvviso delle tue curve dove prende velocità  e srotoloando giù per le gambe, cade verticale.
La linea che parte da me ti disegna tutta e ci chiude in una curva perfetta, si conclude in un cerchio divisibile solo per se stesso.

Il medico

Sara ha le vertebre più belle che abbia mai esaminato.

Quando dorme su un fianco accanto a me ritrovo questo stupefacente serpente di vertebre proteso. Sinuosamente mi invita a sfiorarle. A contarle una per una, sentendo sotto i polpastrelli la pelle sottilmente tesa dalla collana di nodi. Un filo di processi spinosi che mi guardano. L’incanto si spezza quando sospirando si gira prima sulla schiena, solleva un braccio per stenderlo sul mio cuscino e poi con il resto del corpo accompagna la torsione. Il suo corpo cerca il mio, anche nell’incoscienza. Con una gamba piegata verso di me riesco a vederle il ventre, la sporgenza delle spine iliache riprende il gioco della schiena. Allungo una mano in silenzio, per non svegliarla. Cerco il punto esatto in cui la pelle si tende come una vela e cerca di arrivare fino all’ombelico. La conquista di uno strato sottile di cute e muscoli. Mi piace accarezzarla lì dove da sveglia soffre il solletico. Posso farlo solo ora.