Hai sterzato con i freni della ruota davanti e per non sbalzare con tutto il peso del corpo contro il pilastro del portico, hai buttato subito un piede a terra. Probabilmente lì davanti al bar c’è ancora un po’ di gomma della tua suola spalmata sul porfido. Senza darmi il tempo nemmeno per balbettare qualcosa sulla tua irruzione, hai brandito contro il mio viso il mazzo di fiori che tenevi nella mano sinistra. Avevi evidentemente sentito il mio commento, nonostante pedalassi forte e in una direzione contraria alla mia.
– Guarda che bei fiori che ha quel ragazzo.
– Forse è sceso dai colli e li ha raccolti nei campi.
Eri lì che mi sventolavi sotto il naso questo mazzo di papaveri, campanelle, spighe e non capivo cosa volevi che dicessi.
– Se riconosci quelli rosa, questi sono tutti per te.
– Scusa?
– Se conosci il nome di questi fiori, te li regalo.
– Oh.
Non sapevo il nome. Ti ho chiesto se potevo almeno annusarli e tu dapprima hai sorriso di sottecchi, poi hai dato un’impercettibile scrollata con la spalla destra. Hai sorriso di nuovo, guardandomi negli occhi e hai sollevato i fiori, perché potessi affondare in quella nuvola.
– Mi dispiace, non lo so. Però regalali a qualcun’altra, almeno.
– Non posso. Li terrò io ma questi erano per te.
E sei ripartito di scatto, forse ti avevo deluso a sufficienza. Stamattina, bevendo il caffè, ho immaginato che stessi facendo lo stesso, prima di andare in ufficio. Ero felice che ci fossero i miei fiori a farti compagnia, lì sul tavolo.