Il ciclista

Hai sterzato con i freni della ruota davanti e per non sbalzare con tutto il peso del corpo contro il pilastro del portico, hai buttato subito un piede a terra. Probabilmente lì davanti al bar c’è ancora un po’ di gomma della tua suola spalmata sul porfido. Senza darmi il tempo nemmeno per balbettare qualcosa sulla tua irruzione, hai brandito contro il mio viso il mazzo di fiori che tenevi nella mano sinistra. Avevi evidentemente sentito il mio commento, nonostante pedalassi forte e in una direzione contraria alla mia.

– Guarda che bei fiori che ha quel ragazzo.

– Forse è sceso dai colli e li ha raccolti nei campi.

Eri lì che mi sventolavi sotto il naso questo mazzo di papaveri, campanelle, spighe e non capivo cosa volevi che dicessi.

– Se riconosci quelli rosa, questi sono tutti per te.

– Scusa?

– Se conosci il nome di questi fiori, te li regalo.

– Oh.

Non sapevo il nome. Ti ho chiesto se potevo almeno annusarli e tu dapprima hai sorriso di sottecchi, poi hai dato un’impercettibile scrollata con la spalla destra.  Hai sorriso di nuovo, guardandomi negli occhi e hai sollevato i fiori, perché potessi affondare in quella nuvola.

– Mi dispiace, non lo so. Però regalali a qualcun’altra, almeno.

– Non posso. Li terrò io ma questi erano per te.

E sei ripartito di scatto, forse ti avevo deluso a sufficienza. Stamattina, bevendo il caffè, ho immaginato che stessi facendo lo stesso, prima di andare in ufficio. Ero felice che ci fossero i miei fiori a farti compagnia, lì sul tavolo.

Ventotto anni

La linea si divincola dal broglio delle mie ciglia e con uno slancio maldestro si stende in avanti, attraversa timida le molecole di ossigeno tra il mio respiro e il tuo, scavalca questo silenzio di te e di me e ti disegna, dalla punta del naso si arrampica su fino alla fronte, ti accarezza distratta poi prende coraggio e insegue lo scompiglio complice dei tuoi capelli, scivola divertita giù per il collo, che sembra non finire più, finché le spalle la fermano un istante, così si intenerisce e  imprevedibilmente rallenta, indugia sulle tue scapole affilate e tiene traccia di te contando le vertebre, fino all’inciampo improvviso delle tue curve dove prende velocità  e srotoloando giù per le gambe, cade verticale.
La linea che parte da me ti disegna tutta e ci chiude in una curva perfetta, si conclude in un cerchio divisibile solo per se stesso.

Il medico

Sara ha le vertebre più belle che abbia mai esaminato.

Quando dorme su un fianco accanto a me ritrovo questo stupefacente serpente di vertebre proteso. Sinuosamente mi invita a sfiorarle. A contarle una per una, sentendo sotto i polpastrelli la pelle sottilmente tesa dalla collana di nodi. Un filo di processi spinosi che mi guardano. L’incanto si spezza quando sospirando si gira prima sulla schiena, solleva un braccio per stenderlo sul mio cuscino e poi con il resto del corpo accompagna la torsione. Il suo corpo cerca il mio, anche nell’incoscienza. Con una gamba piegata verso di me riesco a vederle il ventre, la sporgenza delle spine iliache riprende il gioco della schiena. Allungo una mano in silenzio, per non svegliarla. Cerco il punto esatto in cui la pelle si tende come una vela e cerca di arrivare fino all’ombelico. La conquista di uno strato sottile di cute e muscoli. Mi piace accarezzarla lì dove da sveglia soffre il solletico. Posso farlo solo ora.